Mancini sì Mancini no

6 Maggio 2010

Mancini ha solo sfiorato la qualificazione alla Champions League

Dunque Mancini non ce l’ha fatta e, con una partita ancora da giocare in Premier League, ha già detto addio alla qualificazione in Champions League.

Dopo la sconfitta interna di mercoledì sera nello scontro diretto e decisivo contro il Tottenham, infatti, il Manchester City resta staccato di 4 punti dalla squadra diretta magistralmente da Harry Redknapp, che ha raggiunto un traguardo ugualmente storico riuscendo a tornare nella competizione più prestigiosa d’Europa dopo che per l’ultima volta vi aveva pertecipato nel lontano ’61-’62.

A questo punto alcune considerazioni sono d’obbligo.

Mark Hughes da tempo allenava più che decentemente il City e solo la scorsa estate aveva potuto spendere grosse cifre in ragione dello sforzo finanziario deciso dalla nuova proprietà, quella che aveva provato a strappare Kakà al Milan o meglio al Real Madrid. Dopo un inizio di stagione in cui la sua squadra era stata la meno battuta del campionato, dopo un po’ troppi pareggi ma di certo in seguito a una decisione a lungo meditata dai suoi datori di lavoro, ecco che sul finire dell’anno solare gli soffia letteralmente via la panchina il buon Mancini, che con la sua ormai leggendaria sciarpa dal morbido nodo porta a Eastlands la determinazione a conquistare un posto in Champions. Cosa che a detta dei più non c’era finché ad allenare era il gallese. Sarà questione di charme, dicevo io… Ma mi chiedevo fin da allora se lo charme stringendo stringendo valesse davvero più dell’introversione tipicamente gallese di Hughes.

Mancini, che è giusto ricordare come abbia lavorato con quel che c’era, che non era certo male ma poteva anche non adattarsi perfettamente alla sua visione del gioco, ha iniziato bene. A colpire inizialmente è stata l’imperforabilità della difesa, un tassello che sembrava fondamentale soprattutto perché a lungo e invano cercata con Hughes, e con questa un passo deciso nella risalita della classifica. Hughes, infatti, aveva perso poco ma pareggiato troppo e con un record di 7 vinte, 8 pareggiate e 2 perse non stava tenendo il passo delle prime quattro di allora, benché non se ne fosse nemmeno staccato troppo.

Con Mancini, però, la squadra aveva iniziato a giocare con meno fluidità, minor velocità, e come solo i più attenti osservatori del calcio internazionale potevano considerare si correva il rischio di scambiare quel brutto gioco per praticità. Già, perché chi conosce bene il calcio inglese sa che il bel gioco che si fa da quelle parti almeno negli ultimi anni è tutto meno che poco pratico e, anzi, si dimostra un’arma spesso letale anche quando a farlo sono giocatori non troppo tecnici. E comunque più efficace del gioco macchinoso.

E’ così che col passare del tempo i pur pochi gol presi dal City, che comunque ha iniziato a subirne, non sono stati sempre accompagnati dall’efficacia offensiva (complice la Coppa d’Africa con gli strascichi che ha lasciato su Adebayor) e nonsotante le scorribande di Bellamy e l’esplosività di Tevez sono arrivate le prime delusioni. Soprattutto nelle Coppe, con le due eliminzioni patite per mano del modesto Stoke City (uscito oltretutto indenne dal City of Manchester) e niente meno che i cugini forti, belli e vincenti da tantissimo, troppo tempo dello United. Una sentenza, quest’ultima, dura per svariati motivi. E ripetutatsi poco tempo fa allorché la vittoria degli uomini di Ferguson a Eastlands ha frenato anche la corsa in Premier di Mancini e dei suoi.

In quanto agli scontri con chi in Champions c’è arrivato, su quattro sfide il City ne ha vinta una sola (in casa del brutto Chelsea di febbraio) e poi pareggiata un’altra e perse due, oltretutto senza segnare. Allo stesso modo, alla differenza reti che si era gonfiata enormemente a cavallo tra febbraio e marzo (+12 in tre sole partite anche se contro squadre nettamente inferiori) ha fatto da contraltare un uguale numero di gol segnati e subiti negli ultimi quattro impegni di campionato e la conseguente raccolta di soli 4 punti su 12. Gol mal distribuiti, insomma.

Tornando al confronto con Hughes, con lui il City in 17 partite di Premier 2009-10 aveva segnato 33 reti subendone 27 mentre con Mancini ne ha subite solo 17, sì, ma fatte appena 39. In 20 incontri. Media punti, poi, 1.7 per Hughes e 1.85 per Mancini. Non questa gran differenza, in fin dei conti.

Insomma, in Inghilterra come in Italia il valore di Mancini è ancora tutto da stabilire. A Manchester come a Milano (dopo Roma e Firenze), sembra che stia facendo più o meno bene esattamente come ha fatto o avrebbe potuto fare chi ha o avesse seduto sulla sua panchina e con gli stessi uomini. Parlando del Mancini allenatore più maturo, all’Inter ha vinto solo nel particolare scenario del dopo Calciopoli ma ha vinto né più né meno di quanto abbia poi fatto Mourinho con la stessa rosa, e a suo favore va detto che niente vieta di pensare che con i nuovi uomini che ha potuto dirigere il portoghese quest’anno anche Mancini sarebbe arrivato lontano. A Eastlands, poi, ha fatto poco più di quanto avesse fatto nelle stesse condizioni Hughes. Non male, ma comunque troppo poco, anche se credo che andare oltre la richiesta di arrivare fra i primi quattro, senza trasformarla in una pretesa, sia un’accortezza dovuta a un allenatore le cui potenzialità almeno per il futuro autorizzano a pensare in grande.